Il Muro. Quel giorno che cambiò la storia.....
MONDO......
di Paolo Soldini
Quando cominciò a cadere il Muro di Berlino? Bella domanda. Ognuno che abbia vissuto da testimone quei giorni di vent’anni fa ha una sua risposta. La mia è in una serie di immagini. La prima: Helmut Kohl che saltella su per i gradini del palco al congresso federale della Cdu a Brema. È il 13 settembre del 1989. Il cancelliere è arrivato al capolinea, dicono. La fronda interna lo sta spingendo verso le dimissioni, o almeno verso la rinuncia alla ricandidatura. Lui è anche malato, si è saputo, roba di cuore. Forse è a un passo dalla resa. E invece eccolo salire sul podio come un ragazzino. Il suo faccione si stende in un sorriso: lo ha chiamato Miklós Németh, il primo ministro ungherese. Stiamo aprendo la frontiera – gli ha detto – e ci sono decine di migliaia di tedeschi dell’est che passeranno in Austria.
Lo stillicidio dei passaggi attraverso la cortina di ferro diventata cortina di burro per volontà dei riformisti ungheresi è durato tutta l’estate. Ma adesso arriva il colpo grosso, e Kohl lo sa. Mentre parla dal palco, le tv iniziano a trasmettere in diretta il Grande Esodo notturno: migliaia di Trabant che entrano in Austria, birra che scorre, gente che grida, applaude, si abbraccia.
E allora, al diavolo la Cdu, si parte. Brema, Colonia, Francoforte, Norimberga, Ratisbona, Linz. A Neusiedl si incrociano i primi convogli di Trabant strombazzanti e di pullman. In quell’alba ebbra di sogni e di sonno perduto, dev’esserci anche Gero R., che anni dopo mi racconterà la sua, di fuga, dal quartiere di Pankow (Berlino est) a Wedding (Berlino ovest), da dove potrà vedere la sua vecchia casa nell’altro mondo semplicemente affacciandosi dalla terrazza della zia. Fuga da Berlino a Berlino, aggirando il confine di cemento più duro che la Storia e la politica hanno alzato separando quartiere da quartiere, strada da strada, e sentimenti, e affetti, e memorie. Vite.
La seconda immagine è la sera del 30 settembre a Praga. Nel giardino dell’ambasciata della Repubblica federale sono accalcati 6-7 mila mila tedeschi orientali che sperano in una soluzione «all’ungherese». Altre migliaia sono fuori, nei prati, guardati da poliziotti incerti. Ma Praga non è Budapest. Il confine, qui, è ancora di ferro. Per giorni ha piovuto e il fango tira via le scarpe dai piedi. C’è il rischio di epidemie, un bambino è morto per il freddo. Può succedere qualsiasi cosa. A un certo punto, sul balcone compare Hans-Dietrich Genscher, il ministro degli Esteri di Bonn. Barcolla. Riesce a dire: «Compatrioti, per ciò che riguarda il vostro espatrio...», poi è un’esplosione di gioia e ogni altra parola diventa inutile.
In una complicatissima partita diplomatica Genscher ha strappato l’espatrio per 17 mila cittadini dell’est. Berlino vuole però che i treni dei profughi transitino sul loro territorio. Errore fatale: il passaggio dei convogli diventa una specie di enorme corteo politico. A ogni stazione, manifestazioni di dissenso, tentativi di salire in massa sui vagoni, scontri.
Terzo fotogramma. Berlino, 7 ottobre. La capitale vive giorni intensi. In città c’è Gorbaciov. L’hanno invitato per il 40° anniversario della Ddr. Ma per i tedeschi stanchi del regime il leader del Pcus è un portatore di speranze, un simbolo. Verso sera la polizia chiude la Unter der Linden all’altezza del Palast der Republik, l’orribile manufatto voluto da Honecker, dove la nomenklatura è radunata per la cerimonia. Un uomo anziano non ci sta. Agita il bastone. «Sono malato, debbo tornare a casa. Che diritto avete di chiudere le strade?». Gli agenti sono perplessi: mai vista una tale insubordinazione. Si apre un varco e il vecchietto passa, guidando col suo bastone una specie di un piccolo corteo.
La polizia, in nottata, picchierà duro alla Getsemanikirche, lontano dagli occhi dei giornalisti occidentali. Ma qui, davanti al Tempio del Potere, hanno ceduto: la Ddr è alla fine. Gorbaciov, il giorno prima, l’aveva detto: «Chi arriva tardi viene punito dalla vita», ma i leader della Ddr sono sordi. La sera, i giovani della Fdj, l’organizzazione della Sed, sfilano in un corteo un po’ sinistro fino alla Porta di Brandeburgo. Ma quando la manifestazione si scioglie, le «camicie blu» sciamano per il centro, gridando «Gorby, Gorby». Tra dieci giorni Honecker sarà esautorato, tra meno di un mese crollerà il governo: la Storia sta prendendo la rincorsa.
Quarto fermo immagine. L’espressione di Günter Schabowski mentre legge le «nuove disposizioni» che sanciscono la transitabilità del Muro. Quella sera del 9 novembre è stata raccontata mille volte, come prologo alla wahnsinnige Nacht, la notte folle che la seguì. C’è chi sostiene che l’annuncio sia stato un gigantesco fraintendimento, una sopraffina astuzia della Storia contro il Potere, e chi invece ritiene che si sia trattato di una commedia per recuperare in extremis un po’ di consenso. In una recente intervista, Riccardo Ehrman, il giornalista dell’Ansa che rivolse al portavoce del politburo la fatidica domanda sulla «transitabilità», ha ammesso di essere stato «imbeccato»: ma chi ricorda gli occhi spaesati di Schabowski ha buoni motivi per dubitare del «complotto riformatore».
Schabowski tira fuori dalla tasca un foglietto che qualcuno gli ha dato, legge le «nuove disposizioni» con l’aria di uno studente insicuro. Quando arriva la seconda domanda («la possibilità per i cittadini della Ddr di attraversare il confine riguarda anche il Muro?»), appare disperato. «Beh, il confine dentro Berlino è parte del confine della Repubblica, quindi...». Quindi il Muro diventa un confine normale, transitabile, come tutti i confini del mondo. «E quando entreranno in vigore le nuove disposizioni?» «Ab sofort»: da subito. Il Muro c’è ancora, ma è come se fosse già caduto. Da questo momento in poi le immagini si accavallano.
Verso le 22.30 gruppi sempre più numerosi si muovono verso i sette varchi di confine sul Muro. Un’ora dopo, sulla Bornholmerstrasse, la folla è già tanta che non c’è modo di avvicinarsi e allora funziona solo il passaparola. «Hanno aperto, hanno aperto». «Fanno uscire solo chi ha il passaporto». «No, ora si passa tutti». Arrivano birre e bottiglie di Rotkäppchen, l’orrido champagne made in Ddr. Ci si abbraccia fra sconosciuti, si ride e si piange. Ora sì, è certo: dopo 28 anni, 2 mesi e 26 giorni, il Muro di Berlino è stato aperto. Cambia per sempre la vita dei berlinesi e dell’Europa. Davanti alla sbarra alzata a Borholmerstrasse, un Volkspolizist partecipa nel suo piccolo al Grande Disordine che lo sta travolgendo: accetta un fiore e accende una sigaretta.
La Ddr c’è ancora e già non c’è più. Alla Porta di Brandeburgo i più giovani si stanno già issando sul Muro e sta arrivando Rostropovic, bandito da tutti i paesi dell’est. Trarrà dal suo violoncello note gioiose e poi tristi, «perché ora siamo felici, ma dobbiamo ricordarci che il Muro è stato dolore, separazione, morte». All’alba, i 75 mila berlinesi dell’est che hanno fatto almeno una scappata «drüben», dall’altra parte, tornano a casa e si mettono a letto. È venerdì: si lavora.
Lo stillicidio dei passaggi attraverso la cortina di ferro diventata cortina di burro per volontà dei riformisti ungheresi è durato tutta l’estate. Ma adesso arriva il colpo grosso, e Kohl lo sa. Mentre parla dal palco, le tv iniziano a trasmettere in diretta il Grande Esodo notturno: migliaia di Trabant che entrano in Austria, birra che scorre, gente che grida, applaude, si abbraccia.
E allora, al diavolo la Cdu, si parte. Brema, Colonia, Francoforte, Norimberga, Ratisbona, Linz. A Neusiedl si incrociano i primi convogli di Trabant strombazzanti e di pullman. In quell’alba ebbra di sogni e di sonno perduto, dev’esserci anche Gero R., che anni dopo mi racconterà la sua, di fuga, dal quartiere di Pankow (Berlino est) a Wedding (Berlino ovest), da dove potrà vedere la sua vecchia casa nell’altro mondo semplicemente affacciandosi dalla terrazza della zia. Fuga da Berlino a Berlino, aggirando il confine di cemento più duro che la Storia e la politica hanno alzato separando quartiere da quartiere, strada da strada, e sentimenti, e affetti, e memorie. Vite.
La seconda immagine è la sera del 30 settembre a Praga. Nel giardino dell’ambasciata della Repubblica federale sono accalcati 6-7 mila mila tedeschi orientali che sperano in una soluzione «all’ungherese». Altre migliaia sono fuori, nei prati, guardati da poliziotti incerti. Ma Praga non è Budapest. Il confine, qui, è ancora di ferro. Per giorni ha piovuto e il fango tira via le scarpe dai piedi. C’è il rischio di epidemie, un bambino è morto per il freddo. Può succedere qualsiasi cosa. A un certo punto, sul balcone compare Hans-Dietrich Genscher, il ministro degli Esteri di Bonn. Barcolla. Riesce a dire: «Compatrioti, per ciò che riguarda il vostro espatrio...», poi è un’esplosione di gioia e ogni altra parola diventa inutile.
In una complicatissima partita diplomatica Genscher ha strappato l’espatrio per 17 mila cittadini dell’est. Berlino vuole però che i treni dei profughi transitino sul loro territorio. Errore fatale: il passaggio dei convogli diventa una specie di enorme corteo politico. A ogni stazione, manifestazioni di dissenso, tentativi di salire in massa sui vagoni, scontri.
Terzo fotogramma. Berlino, 7 ottobre. La capitale vive giorni intensi. In città c’è Gorbaciov. L’hanno invitato per il 40° anniversario della Ddr. Ma per i tedeschi stanchi del regime il leader del Pcus è un portatore di speranze, un simbolo. Verso sera la polizia chiude la Unter der Linden all’altezza del Palast der Republik, l’orribile manufatto voluto da Honecker, dove la nomenklatura è radunata per la cerimonia. Un uomo anziano non ci sta. Agita il bastone. «Sono malato, debbo tornare a casa. Che diritto avete di chiudere le strade?». Gli agenti sono perplessi: mai vista una tale insubordinazione. Si apre un varco e il vecchietto passa, guidando col suo bastone una specie di un piccolo corteo.
La polizia, in nottata, picchierà duro alla Getsemanikirche, lontano dagli occhi dei giornalisti occidentali. Ma qui, davanti al Tempio del Potere, hanno ceduto: la Ddr è alla fine. Gorbaciov, il giorno prima, l’aveva detto: «Chi arriva tardi viene punito dalla vita», ma i leader della Ddr sono sordi. La sera, i giovani della Fdj, l’organizzazione della Sed, sfilano in un corteo un po’ sinistro fino alla Porta di Brandeburgo. Ma quando la manifestazione si scioglie, le «camicie blu» sciamano per il centro, gridando «Gorby, Gorby». Tra dieci giorni Honecker sarà esautorato, tra meno di un mese crollerà il governo: la Storia sta prendendo la rincorsa.
Quarto fermo immagine. L’espressione di Günter Schabowski mentre legge le «nuove disposizioni» che sanciscono la transitabilità del Muro. Quella sera del 9 novembre è stata raccontata mille volte, come prologo alla wahnsinnige Nacht, la notte folle che la seguì. C’è chi sostiene che l’annuncio sia stato un gigantesco fraintendimento, una sopraffina astuzia della Storia contro il Potere, e chi invece ritiene che si sia trattato di una commedia per recuperare in extremis un po’ di consenso. In una recente intervista, Riccardo Ehrman, il giornalista dell’Ansa che rivolse al portavoce del politburo la fatidica domanda sulla «transitabilità», ha ammesso di essere stato «imbeccato»: ma chi ricorda gli occhi spaesati di Schabowski ha buoni motivi per dubitare del «complotto riformatore».
Schabowski tira fuori dalla tasca un foglietto che qualcuno gli ha dato, legge le «nuove disposizioni» con l’aria di uno studente insicuro. Quando arriva la seconda domanda («la possibilità per i cittadini della Ddr di attraversare il confine riguarda anche il Muro?»), appare disperato. «Beh, il confine dentro Berlino è parte del confine della Repubblica, quindi...». Quindi il Muro diventa un confine normale, transitabile, come tutti i confini del mondo. «E quando entreranno in vigore le nuove disposizioni?» «Ab sofort»: da subito. Il Muro c’è ancora, ma è come se fosse già caduto. Da questo momento in poi le immagini si accavallano.
Verso le 22.30 gruppi sempre più numerosi si muovono verso i sette varchi di confine sul Muro. Un’ora dopo, sulla Bornholmerstrasse, la folla è già tanta che non c’è modo di avvicinarsi e allora funziona solo il passaparola. «Hanno aperto, hanno aperto». «Fanno uscire solo chi ha il passaporto». «No, ora si passa tutti». Arrivano birre e bottiglie di Rotkäppchen, l’orrido champagne made in Ddr. Ci si abbraccia fra sconosciuti, si ride e si piange. Ora sì, è certo: dopo 28 anni, 2 mesi e 26 giorni, il Muro di Berlino è stato aperto. Cambia per sempre la vita dei berlinesi e dell’Europa. Davanti alla sbarra alzata a Borholmerstrasse, un Volkspolizist partecipa nel suo piccolo al Grande Disordine che lo sta travolgendo: accetta un fiore e accende una sigaretta.
La Ddr c’è ancora e già non c’è più. Alla Porta di Brandeburgo i più giovani si stanno già issando sul Muro e sta arrivando Rostropovic, bandito da tutti i paesi dell’est. Trarrà dal suo violoncello note gioiose e poi tristi, «perché ora siamo felici, ma dobbiamo ricordarci che il Muro è stato dolore, separazione, morte». All’alba, i 75 mila berlinesi dell’est che hanno fatto almeno una scappata «drüben», dall’altra parte, tornano a casa e si mettono a letto. È venerdì: si lavora.
08 novembre 2009 (L'Unità)

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