venerdì 11 settembre 2009

Il carcere parla col ponentino...

11/9/2009

IL VECCHIO CRONISTA




IGOR MAN
La callaccia, un mix di scirocco e di nuvole basse, è stata sconfitta dal ponentino, un vento antico che concilia la pennichella. Ma il ponentino per i romani che gravitano nell’ampio spazio occupato dalla struttura ottocentesca del carcere di Regina Coeli, è un mezzo di comunicazione affidato, nel pomeriggio, al vento che viene di lontano, giustappunto il ponentino. Dall’alto del Gianicolo i parenti dei carcerati affidano al vento messaggi ma anche tenerezze destinati ai famigliari o agli amici in prigione. Sapendo ben raccogliere l’ala del vento, Marcello dichiara il suo amore a Patrizia che a sua volta, con vetusta tecnica eolica, dichiara amore e fedeltà «all’omo mio». Nei vicoli stravecchi di Trastevere i bambini sfortunati (come pietosamente li chiamano) imparano presto come, in che modo, quando è possibile colloquiare coi propri cari reclusi in quel carnaio che in fatto è l’ottocentesco carcere. I detenuti di Regina Coeli, costruito nel 1891, affidano al vento notizie importanti: l’ultima è la morte terribile d’un detenuto del carcere di Pavia; sì, Pavia: il ponentino sfida per celerità ogni distanza - c’è un «comitato ad hoc» che seleziona le notizie del giorno e le diffonde, in grazia del ponentino.

Nelle carceri c’è la tv, non mancano le radio e dunque le notizie, tutte le notizie, arrivano sicché diremo tranquillamente che il ponentino è «un telefono a due sensi - andata e ritorno» per citare Giuseppe Adinolfi, medico penitenziario di Regina Coeli. «Adinolfi coniugava la competenza dello storico e la passione per la medicina e per questo ricorda alcuni ricercatori ottocenteschi che univano il sapere scientifico e quello umanistico, sorretti da un reale interesse per l’essere umano» (cfr. A. Borzacchiello). Al tempo di «Mani pulite» mi fu concessa una full immersion in San Vittore. Un’esperienza dura come l’ossidiana: le carceri sono un luogo di pena, questo non va dimenticato - quegli accadimenti ci dicono però che c’è una sola «medicina», la speranza. I detenuti sono uomini, anche i più trucidi, questo non va dimenticato ancorché non sia facile. Il discorso che mi fece, allora, il direttore di San Vittore Luigi Pagano, è tragicamente «attuale». In breve: il tunisino Sami Mbarka Ben Gargi, chiuso nel carcere di Pavia, si è suicidato. Con un’arma insolita: lo sciopero della fame. Si è lasciato morire giorno dopo giorno. Sembra che tutti gli sforzi per fargli accettare il cibo siano stati vani. La mia, ha detto il tunisino, è la protesta di un innocente, di un uomo derubato nel suo unico bene: l’onore.

Appresa la notizia della morte-suicidio del tunisino Ben Gargi i carcerati hanno protestato vigorosamente ma, dicono i responsabili, una volta chiarito che quello del tunisino è un suicidio, insomma che non ha subìto violenze, l’ordine è tornato dietro le sbarre. Ora il vecchio cronista si chiede se e quando il ministro Alfano riuscirà a dare più spazio ai detenuti, se il pianeta galera conoscerà infine una pena severa ma non infame.

Oggi le carceri scoppiano: la capienza complessiva ammonta a 45 mila reclusi. Le carceri ne ospitano oltre 63 mila. 20 mila sono gli stranieri. Che fare?
(La Stampa - Torino)

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