Gli "accampati".
Gli accampati
A due mesi dal sisma, ritorno in Abruzzo fra i 25mila che ancora vivono nelle "case di stoffa". Fra volontari instancabili, tensioni etniche, mense a lume di candela e ragazzini che giocano "al terremoto"
DI CESARE FIUMI - REPORTAGE FOTOGRAFICO DI JAMES HILL
La scossa arriva che il piccolo è appena entrato in bagno, uno di quei wc da campo che stanno sull’attenti, uno accanto all’altro di fianco alle tendopoli. «Terremoto, terremoto», gridano gli altri bambini. Qualcuno si volta sorpreso, tanti non ci fanno più caso, ma il piccolo, chiuso nel box, sa bene di cosa si tratta. Lo sciame non accenna a finire, ma a ballare – nell’immobilità di un pomeriggio bollente, anche fuori dalle tende – è soltanto quella toilette occupata. «Terremoto», grida un’ultima volta lo sciame dei bimbi, ormai stufi di scuotere il bagno da campo con l’amico dentro, in attesa di prenderlo in giro. Due mesi di tende. Con lo spavento di guardia, a portata di scossa: ce n’è ogni momento e le sentono tutte, anche se lievi, gli abitanti straniti. Il caldo che stronca e la convivenza che stanca: rumori, odori, abitudini che sbattono uno sull’altro. Anziani avviliti e giovani più spaesati di loro. Uomini che hanno ripreso, chi ancora ce l’ha, il lavoro e donne che fanno lavatrici. E in questo accampamento di sfortune, che si tiene su con la speranza, a fine estate, di un tetto qualunque, ecco i bambini, armati di strumenti tutti loro, inconsapevoli ma fino a un certo punto, cancellare i disagi e strappare sorrisi giocando “al terremoto”.
RITORNO IN ABRUZZO, a 60 giorni dal sisma, mentre la vita attendata si fa routine e disincanto per i 25mila che abitano ancora tra le pareti di stoffa. «E chi li tiene più i bambini. Ormai non hanno più regole. Fin qui hanno fatto tre ore al giorno di scuola, sotto il tendone all’ingresso del campo, non una di più perché concentrati non riescono a stare. Non sono mai stanchi e non vogliono mai andare a letto. Sembrano piccoli selvaggi. E noi genitori, con il terremoto, abbiamo perduto anche un bel po’ di autorevolezza». Tendopoli di Camarda, appena sotto il Gran Sasso e il paese: una teoria di case incrinate, poggiate una sull’altra come un domino traballante. Monica Ciotti è una mamma del campo, anche se lei è di Tempera dove avrebbe una casa «quasi» agibile. «Ma mio figlio ha detto “no, a casa no, ho paura” e allora sto qui, dove c’è mio padre che guida l’ambulanza. Il lavoro non ce l’ho, non più: facevo la segretaria a L’Aquila, ma la concessionaria è venuta giù con tutto il resto e per adesso sto in cassa integrazione». Le sette e mezza, suona la campana della cena. Dal container-cucina si leva un fil di fumo, il sambuco ondeggia e il ruscello scroscia di fianco alle tende. «Sembra un campeggio, eh?», fa un uomo che torna da Bazzano, la zona industriale del cratere, «e invece è una disgrazia, ma si va avanti». Un bambino gli corre incontro e lo abbraccia. Hanno capito, i ragazzini, che i genitori non sono invincibili, che il terremoto è troppo forte anche per loro, però non glielo fanno pesare. «Anche se si accorgono quanto sono scossi e tesi», racconta Vanessa, 25 anni, che a Filetto si occupa dei più piccoli e insieme a Ilaria, Emanuele e gli altri ragazzi dei centri sociali di Roma ha tirato su una tenda-ludoteca. «E comunque a Camarda i bambini si cominciano a calmare», fa la maestra Franca, che non ha mai smesso un giorno d’insegnare. E Monica Iovenitti, un’altra mamma: «I primi tempi, tra animatori e caramelle, giocattoli e clown, i bambini erano arrivati a un grado di eccitazione incontrollabile. Adesso, se è consentito dirlo, fanno una vita più regolare». 
NELLA TENDA DELLA SIGNORA Iovenitti ce ne sono quattro di bambini, la più piccola ha 4 anni, e poi ci sono il marito, la sorella Marilena e il nonno Pietro che ha appena compito 99 anni e che regala un cenno di saluto. «Ha rifiutato un albergo a 4 stelle per stare con noi. È abituato a vivere da solo e l’hotel per lui era troppo complicato. Cosa fa? A parte il tempo che dedica alla toletta, legge. Anche dieci ore al giorno: adesso ha in mano un vecchio libro di Enzo Biagi». Ci sono novantacinque anni di differenza tra gli abitanti di questa tenda 6x4, e poi esigenze e orari differenti, e il russare, e i pianti, ma almeno loro sono un nucleo familiare: «Altri non hanno la stessa fortuna e devono coabitare con chi gli tocca, ed è pesante, specie se la mattina devi andare a lavorare». Certo, poteva andare sulla costa il nonno, ma anche lui la pensa come Monica Ciotti: «Si sta male qui, ma andando al mare mi sembrava di tradire ». Passa un gregge davanti alle tende, le pecore rincasano nell’ovile di fronte: un tetto di mattoni per le bestie, mentre i due anziani pastori – lui e lei, le bisacce sulle spalle come figurine di un presepe – s’infileranno, anche stanotte, sotto un cielo in tela blu. I vecchi. «Sono loro a soffrire di più», ti ripetono tutti. «Magari se ne stavano in casa tutto il giorno, circondati però dalle loro quattro cose». E il bagno a un passo, non in fondo al piazzale. Adesso tanti non sanno che fare. «Ormai ogni giorno è domenica», racconta sconsolato Raffaele Rossi, capo-campo di Pescomaggiore 2, una tendopoli privata di cinquanta persone che sta piantata sopra la strada, tutta gomiti, che scende a Paganica. «Lavoro un po’ l’orto, pianto qualche cipolla, ma la solitudine è tanta». E indica l’aia in mezzo alle tende dove riposano cinque palloni e una piccola porta da calcio. «All’inizio c’erano i bambini, i nipoti, ed era una gioia vederli giocare. Ma in tenda soffrivano il caldo e i genitori li hanno mandati con le mamme al mare. Vede, quello è mio figlio Franco, fa il muratore giù all’Aquila, rimette in sesto l’hotel Azzurro, ma oggi che è sabato è in partenza per la costa. Li va trovare».
I VECCHI. Sono in sette, tutti uomini, alle nove di sera sotto la tenda più grande del campo più grande: in piazza d’Armi a L’Aquila. Seduti dinnanzi a uno schermo gigante, guardano «i pacchi » alla tv. Nell’angolo opposto, settore giovanile, davanti alla partita di basket c’è solo un ragazzo, in piedi, che tra un po’ se ne andrà. Eppure è una serata speciale là dentro: i romeni del campo, e sono più di duecento su 1.300 sfollati, hanno deciso di organizzare una festa per «rinsaldare il legame» con gli italiani, i filippini (un centinaio) e i sudamericani. Un legame che non s’è mai visto. Anzi, qui al campo di Piazza d’Armi si son consumate non poche tensioni etniche, tra accuse d’aggressione sessuale, l’arresto di un presunto pedofilo (V.P., un italiano di 54 anni) e liti di bambini finite in risse di adulti. Quasi a miniaturizzare, tra le tende, l’aria che nel Paese si respira un po’ ovunque. Parte la musica, folklore slavo, e il locale si riempie. Ma solo di romeni. Partecipano ai girotondi gli scout e i frati che fanno assistenza. Di sfollati italiani neppure l’ombra. Ballano grandi e piccoli. Ballano anche Augustin e Angela Bacosca, i nonni del primo bambino nato nel campo, un romeno: Angelo Augustin, come loro. Ha solo 42 anni, la nonna, e pare di rivedere l’Italia di una volta. Dice Emanuele Potenti, volontario di Pistoia: «Sembra d’essere tornati a quei tempi, a 60 anni fa: mia madre mi ha avuto che aveva vent’anni. E nelle sagre i nostri vecchi ballavano così, allegramente, cercando di dimenticare i guai, che pure erano tanti». Oggi siamo un altro Paese e i sette pensionati, davanti alla tv di piazza d’Armi, continuano a fissare i pacchi sullo schermo muto, dando raramente un’occhiata alle danze. Quasi a ufficializzare un’incomunicabilità latente. «Eppure», dice Marianna Muntean, 39 anni, referente romena, «io e tanti altri ci sentiamo più aquilani di tanti aquilani che se ne sono andati. Vivevamo e lavoravamo in città, adesso viviamo nelle tende come gli altri. Peggio per chi è andato al mare: chi sta qui conosce il disagio giorno per giorno, ma per chi tornerà a L’Aquila dopo tanto tempo, sarà un altro terremoto». Perché, inutile nasconderselo, c’è chi soffre quello etnico in corso. «Oggi», spiega un volontario, «proprietari di case e titolari d’imprese, affittuari e lavoratori stranieri, sono tutti nella stessa condizione». Solo che questi ultimi sono rimasti pressappoco dov’erano, mentre i primi sono venuti giù, come le loro case, nella scala-valori dei disagi. «E allora da qui i maumau se ne devono andare, adesso che è tutto crollato: andarsene al loro Paese», grida Gabriele Costa – siamo sul piazzale assolato di Paganica 4, il campo gestito dagli alpini abruzzesi – facendo il segno con la mano che albanesi e romeni, quelli che lui chiama i mau-mau e che rappresentano il 50% degli abitanti del campo, dovrebbero levare le tende e smammare.
FORSE NON C’È POSTO per tutti? «No, è che lui non li vuole: non sopporta gli stranieri nelle tende accanto alla sua», spiega Gianfranco Sabatino, che degli alpini abruzzesi è il coordinatore. «Qui non c’è stato un solo episodio di intolleranza, al massimo abbiamo chiesto di abbassare il volume delle tv. Magari c’è un po’ di fastidio perché gli albanesi non mangiano il maiale oppure perché c’è la coda alla lavatrice». E chiude con un’inattesa lezione di pragmatismo: «Ero nello Sri Lanka nei giorni dello tsunami. E stavo in un campo allestito al confine tra i territori governativi e quelli dei Tamil. Ecco, lì si poteva parlare di tensioni». Come dire: occhio, non scambiamo il post-terremoto per una guerra. E disinneschiamo, piuuosto, queste scaramucce tra poveri, nuovi e no, che si consumano tra le tende allineate, dove proprio perché il caldo e il disagio – «ma i condizionatori sono in arrivo anche qui» – sono uguali per tutti, c’è chi trova intollerabile questa parità e fatica a coabitare. Chiedendo espulsioni. E dimenticando che la vittima più piccola del sisma aveva 5 mesi, si chiamava Antonio Ivan ed era romeno. E che in testa alla lista, in ordine alfabetico, dei morti ci sono Abdija Nurije di 41 anni e Alena Airulai, di 21. Perché il terremoto, quella notte, non ha controllato i passaporti di nessuno. Le quattro e mezza di mattina. Non si dorme nella tendopoli di Barisciano, un paese che è rimasto paese, le tende piantate giù al campo grande, ma sparse pure nei giardini e negli orti di fianco alle case, a quel che rimane: le radici ancorate alle porte lasciate spalancate quella notte di due mesi fa. Non si dorme, ma stavolta il caldo non c’entra. È per via di quel rumore sordo, atteso da un anno: il rumore che fanno duemila capi di bestiame: tante sono le mucche che, incitate dai pastori, muovono dal fondovalle per salire a Campo Imperatore. La transumanza al tempo del terremoto ha qualcosa di commovente: si guarda alle bestie e al ciclo delle stagioni come alla normalità: se quelle tornano ai pascoli, noi torneremo a casa. «Già, ma quanto tempo ci vorrà? Sarà finita solo quando potremo dire: “stasera andiamo a L’Aquila a farci un gelato”», spiega Sandro Mazzoni, che vive nella tendopoli di Filetto, una balconata a mille metri d’altezza sulla città impietrita. «Dieci anni? Di più?».
INTANTO CI SI ATTREZZA per proprio conto, perché «le prime casette non saranno per tutti». Enrico Scipioni, il titolare del Bar del Ruscello vive in un camper («Dopo otto notti di tenda non ce la facevo più»), il suo amico Dario s’è appena costruito una capanna di ferro («fin qui ho dormito in macchina: quando la inauguro, mi ubriaco»), mentre Giovanni, benzinaio a Paganica, s’è procurato un container vicino alla pompa. E chissà se Giorgio di Camarda, che ha venduto le vacche a 800 euro l’una e ne ha incassati 16mila, investirà il capitale in una di quelle casette in legno – 30 mq a 18mila euro – in bella mostra a L’Aquila. «Perché la vita in qualche modo deve continuare», giurano gli abruzzesi del cratere. «Terremotosto», sta scritto all’ingresso della città: ammonimento per chi, arrivato da fuori, avesse dubbi, ché loro in questo senso non ne hanno. Basta andare a Coppito, all’università. Lezione d’inglese all’aperto, cattedra e sedie nell’unico angolo all’ombra. Dentro la tenda, invece, il professor Massimo Casacchia, psichiatra, tiene lezione, spiegando agli studenti che «tra qualche anno scopriremo di essere molto legati, quasi un sottogruppo che avrà vissuto l’esperienza-terremoto». Sono studenti pendolari che fanno avanti/indietro da Taranto o da Livorno, adesso che l’Aquila, la città dei quindicimila universitari, è un vuoto spettrale, ad abitare le strade solo i cornicioni venuti giù. «Questi sono studenti che tengono duro, come noi professori», spiega Grazia Cifone, preside di medicina, mostrando i fax di solidarietà da tutta Italia. «L’ospedale ha appena riavuto cento posti letto e anche noi, a settembre, saremo pronti per ripartire». Per ora, finché c’è tenda, c’è sessione d’esame e anche di laurea. La prima, in fisioterapia, è andata «alla memoria» di Lorenzo Cinì, 22 anni, rimasto sotto le macerie assieme alla fidanzata Arianna la notte tra il 5 e il 6 aprile. Aveva dato tutti gli esami. Al suo posto, davanti ai docenti, s’è seduto suo padre.
«SENTITO? È APPENA passata la metropolitana», fa Stefano Ercolino, che gestisce con la Protezione civile avellinese il campo di Filetto. Sì, scossa tosta, stavolta, e tutti a parlare di quest’ultima “metropolitana”, e di quanto era forte nella mercalli della loro memoria. «Si sdrammatizza anche così», continua Stefano che ha portato da casa i babà fatti da mammà per i 297 abitanti del paese. «Mangiare, si mangia bene», ripetono gli accampati di Filetto. «E il menù è abbastanza vario», aggiungono quelli di Paganica. Ah, sicuro, per avere un’idea basta sentir declamare il menù da Patrizia, cuoca della tendopoli di Poggio Picenze: «Fettuccine alla pescatora, spiedini di gamberi, fagottino di cernia. E una sera abbiamo organizzato una cena a lume di candela». Non si conosce ancora, invece, il menù del pranzo di nozze del 20 giugno tra Gabriella, campo di Filetto, e Giovanni, campo di Camarda. Né in quale tenda andranno a vivere gli sposi, per avere un minimo di intimità. Perché l’amore è un altro problema dei campi. «La promiscuità non aiuta», spiega Anna di Camarda, «anche solo per cambiarmi la canottiera devo andare nei bagni». E allora come si fa? «Si torna in camporella, si riscopre l’auto», spiegano Fabiana e Mauro, 25enni di Barisciano, fidanzati universitari, «perché se lo fai nel campo si sente tutto». Amori in corso, amori in crisi, come quello di «una coppia che vive da separata in tenda», racconta Patrizia, «perché lui s’è invaghito di una volontaria». Segnali di un mondo accampato che sbuffa, soffre, ma vive. Di vite ribaltate come quella di Victoria e suo marito: lei che faceva lavori in casa per le famiglie di Filetto; lui edile, con la partita Iva chiusa. E oggi lei senza più impiego, senza più case da pulire; e lui, invece, muratore che non smette mai di lavorare, nei primi cantieri della ricostruzione. Vite di tende, dove si impara a non sgarrare, come quei tre ragazzi del campo di Barisciano scoperti a rubare una damigiana di vino e spediti in cucina, a lavare piatti per una settimana. Vite che aspettano di rientrare in quelle case che, in qualche modo, son rimaste su. E che intanto fanno anticamera, dormendo sulle brande in garage, la serranda spalancata per avere meno paura. Vite ferme alla stazione: in 450 ad abitare negli scompartimenti bollenti di treni chiamati “Terni” e “Sulmona”, inchiodati ai binari: casecuccetta dove stanno Iano Crini, 28 anni, che studiava fisioterapia con Lorenzo Cinì e adesso vuole laurearsi anche per lui, e Quirina Cantoni – l’età di chi ha figlie già grandi – che ha scelto di non andare al mare «per restare a combattere qui». Seduta all’ombrellone con vista sul vagone che, prima o poi, come la sua vita, e quella di quelli come lei, ripartirà.
Cesare Fiumi
03 giugno 2009


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